‘A birritta cu ‘i ciancianeddi”, di Luigi Pirandello
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Compagnia Godot di Bisegna e Bonaccorso, Ragusa.
Castello di Donnafugata, Ragusa.
Regia di Vittorio Bonaccorso.
Costumi di Federica Bisegna.
Con Federica Bisegna, Vittorio Bonaccorso, Tiziana Bellassai, Alessio Barone, Benedetta D’Amato, Lorenzo Pluchino, Rossella Colucci, Federica Guglielmino, Alessandra Lelii, Mario Predoana, Maria Grazia Tavano, Roberto Palomba.
Nella messa in scena di “A birritta cu ‘i ciancianeddi”, versione in dialetto siciliano del celebre “Il berretto a sonagli”, scritta da Luigi Pirandello nel 1916 per l’attore Angelo Musco, la Compagnia Godot di Ragusa, guidata dalla regia incisiva di Vittorio Bonaccorso, offre uno spettacolo pulsante e tagliente. Un omaggio non solo al famoso drammaturgo, ma anche all’“altro” grande agrigentino del Novecento, Andrea Camilleri, in occasione del suo centenario. E sembra quasi che le voci di entrambi, Pirandello e Camilleri, si fondano in questo spettacolo, dove la lingua diventa corpo e memoria. La trama è quella nota. Beatrici Fiorica (incarnata alla perfezione da Federica Bisegna) scopre l’infedeltà del marito e vorrebbe denunciare pubblicamente lo scandalo. Ma attorno a lei, una donna borghese, colta, intelligente, si alza un muro compatto di voci, norme, consuetudini. Le viene consigliata la pazienza, il silenzio, come decenza impone… L’unica ad assecondarla è Donna Rocca ‘A Saracina (interpretata da una bravissima e verace Tiziana Bellassai), figura ambigua, mossa forse da desiderio di rivalsa personale nei confronti di un ambiente chiuso e gretto, sicuramente un personaggio anomalo e inquietante per lo spettatore dell’epoca. Tutti, persino chi sembrerebbe alleato, finiscono per trattare Biatrici Fiorica da folle. Alla fine, l’unico modo per contenere la sua ribellione, per neutralizzare il pericolo che rappresenta, sarà rinchiuderla. Non per vendetta, ma per necessità. La società borghese deve tutelarsi da chi minaccia di svelarne le falsità su cui è strettamente fondata. L’altra faccia della medaglia è Don Nociu (un intenso Vittorio Bonaccorso), personaggio tragico ma consapevole, capace di sviscerare la sua condizione di uomo tradito e, contemporaneamente, in grado di elaborare, anche in maniera atrocemente sofferta, fino alle lacrime, un piano per tirarsi fuori da un giudizio collettivo che ne avrebbe decretato la “morte civile”. Come se Pirandello, attraverso il dire di Don Nociu, volesse comunicarci l’impossibilità per il singolo di cambiare la società. Soltanto il tempo e la relativa evoluzione mentale saranno in grado di farlo. La messinscena di Vittorio Bonaccorso accentua il tono grottesco contenuto in questa tragedia pirandelliana, alternando con maestria il dramma e la farsa. La regia si muove in un equilibrio precario, ma alla fine vincente, tra la commedia all’italiana (evidente il rimando a “Divorzio all’italiana”, di Germi), soprattutto nell’uso beffardo della musica e nelle figure di contorno, come il Delegato Spanò (uno straordinario Alessio Barone) , e un Pirandello oscuro e spietato. Proprio il già citato Delegato Spanò diventa il simbolo di questo doppio registro. Un personaggio caricaturale, ma che incarna con precisione chirurgica il volto freddo del potere, quello che riduce il disordine a follia e lo normalizza in nome della legge e dell’onore. La scena verticale della scalinata del Castello di Donnafugata, palcoscenico estivo della Compagnia Godot, ispira chiaramente movimenti scenici ronconiani. Con il suo sviluppo in altezza e dinamicità funziona come proscenio mobile, uno spazio che costringe i corpi ad agire, salire, scendere, fuggire o affrontarsi. Ne nasce una scenografia dell’anima, che non sta mai ferma, che si fa specchio dell’instabilità dei rapporti umani, soprattutto fra Beatrici e Don Nociu, ma anche, e soprattutto, del contesto umano che li circonda e che decide per loro. Una società in cui ogni personaggio rappresenta un modello culturale preciso. La conservazione della tradizione nella figura aspra e irremovibile della vecchia domestica gnà Momma (la sempre brava Benedetta D’Amato); la già evocata ribellione di donna Rocca Saracena, donna ai margini, che sa di non avere spazio; l’intransigenza del fratello e della madre di Biatrici, Don Fifì e Donna Assunta (pienamente in parte Lorenzo Pluchino e Rossella Colucci), che dell’onore familiare fanno un dogma. E, ancora una volta, è il caso di ribadirlo, la difesa dell’ordine costituito nel gelido e insieme beffardo realismo del Delegato Spanò, forse il personaggio simbolo dell’intera pièce.
Bonaccorso, come Pirandello, non fa sconti. Il suo spettacolo cresce come un’escalation da teatro dell’assurdo, cifra distintiva della Compagnia Godot, fino al momento finale, quando la “ragione” di Beatrici si trasforma nella sua “follia”. È in quell’istante che la protagonista viene “fisicamente” inghiottita dagli altri personaggi, che si muovono in gruppo come fossero “morti viventi” di romeriana memoria, in una dinamica scenica e simbolica che ricorda un rito collettivo di espulsione. Chi non aderisce all’ordine, chi lo contesta, deve sparire, necessariamente. Il manicomio, come spesso in Pirandello, è la soluzione razionale ad una crisi di identità sociale che, “pericolsamente”, potrebbe fare saltare in aria tutto. Il dialetto, mai decorativo, ma vivo, contadino, duro, accentua questa realtà granitica. È una lingua che custodisce un mondo, e quel mondo non ammette deviazioni. Chi ne esce fuori, come Beatrici, è straniero, pazzo, pericoloso. E va messo da parte. “A birritta cu i ciancianeddi” è, in questa straordinaria rilettura, un grido soffocato, un urlo tra i denti, una riflessione attuale su cosa significhi oggi essere “fuori norma”, soprattutto per una donna, cartina di tornasole di un mondo cresciuto sul potere e la prevaricazione. Alla fine applausi strameritati per tutti, da un pubblico tanto numeroso quanto caloroso, a conferma del connubio inscindibile tra la Scalinata del Castello di Donnafugata di Ragusa e la Compagnia Godot, che non smette mai di regalare, ad ogni estate, meraviglie e sorprese.
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