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Il malato immaginario

di Molière

con

Vittorio Bonaccorso - Argante
Federica Bisegna - Tonina
Giuseppe Arezzi - Cleante
Alessio Barone - Dottor Diaforetico e Dottor Purgone
Benedetta D'amato - Angelica
Alessandra Lelii - Belina
Angelo Lo Destro - Notaio e Signor Fleurant
Lorenzo Pluchino - Tommaso Diaforetico e Beraldo
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Regia e scena - Vittorio Bonaccorso
Costumi - Federica Bisegna
Parti cantate - Alessio Barone
Fonica - Mattia Zecchin
Teatro comunale Marcello Perracchio
120′

Note di regia

“L'ultima volta che sono andato dal dottore mi ha dato tante medicine che, 
una volta guarito, sono stato male per un mese intero.”
(Groucho Marx)

Dopo aver affrontato due dei suoi più straordinari capolavori “Il borghese gentiluomo” e “L’avaro” (successo quest’ultimo delle due scorse stagioni estive) ci accingiamo a mettere in scena l’opera che diede maggior fama al suo autore, consacrandolo agli occhi del re sole di cui già godeva la protezione. Chissà cosa avrebbe scritto oggi Molière su tutto ciò che è successo a causa della pandemia? Avrebbe cambiato opinione sui dottori o avrebbe, da par suo, affondato la stoccata ancora di più su una categoria che, se da un lato ci è indispensabile e alla quale ci rivolgiamo per ogni nostro malanno, dall’altro non è riuscita a debellare (esattamente come ai tempi di Molière) la ciarlataneria di una parte di essa e che ne compromette la credibilità? Da quale parte si sarebbe schierato?
Di sicuro si sarebbe scagliato contro un sistema (politico, sociale, economico e sanitario) che fagocita tutto e tutti, demolendo ogni tipo di certezza. 
E’ vero che ai suoi tempi era più facile prendere in giro la dottrina medica, in quanto improntata più sull’alchimia, su un fare stregonesco che su basi scientifiche vere e proprie. Il punto è che, al di là dell’epoca e dei livelli raggiunti dalla medicina, il pretesto da cui parte Molière è quello di usare un “vizio” (in questo caso l’ipocondria) per mettere in luce la fragilità dell’essere umano e l’ipocrisia della società che ne frutta i vantaggi. 
Così come ho già scritto in precedenza, i più importanti protagonisti delle opere di Jean Baptiste Poqueline alias Molière, hanno in comune il fatto di vivere in un mondo tutto loro, ossessionati ognuno da un diverso tarlo: la malattia per Argante ne Il malato immaginario, la misantropia per Alceste ne Il misantropo, la voglia di nobiltà per Jourdain ne Il borghese gentiluomo, l’avarizia per Arpagone ne L’avaro. Essi portano alle estreme conseguenze il loro “mal di vivere”, come dei bambini che cercano a tutti i costi l’attenzione degli adulti, e non si può non sentire un pizzico di tenerezza nei loro confronti: prima perché bambini (sognatori quasi), poi perché perdenti.
In quest’opera, l’autore mette un pizzico della sua autobiografia, facendo del corpo del protagonista una metafora: come Argante è vittima dell’arte predatoria dei mistificatori, così il teatro di Molière lo è dei suoi detrattori (la chiesa in primis che vieta la rappresentazione delle sue opere). Ed è beffardo da parte del destino che egli muoia proprio mentre interpreta questa commedia; la quale morte è seme che germoglierà dando vita a ciò che noi oggi conosciamo come teatro moderno.  

Vittorio Bonaccorso

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